Quando l’osservò per la prima volta, se ne stava ancora cullandosi ( oramai impercettibilmente ) sulla schiena ricurva.
L’aveva appena abbandonata, senza alcuna riflessione, sul piano orizzontale della tavola e mostrava essa, impudica, un ventre or ora mutilato con taglio preciso e secco, ma non ancora appassito.
Un ventre biancastro ed umido, quasi uniforme se non fosse stato per quella conca centrale, piccola ed intricata, stipata di semi bruni.
Uno di questi, reciso e privato di una terza parte, rivelava a sua volta, un ventre bianco.
Bianco e basta.
Amava quei semi scuri e li catturava ogni volta con rinnovata meraviglia, come fossero preda ambita, ad uno ad uno, tra pollice ed indice e li portava alla bocca , incastrandoli tra i grossi incisivi per schiuderli ed assaporarne il contenuto, lievemente amarognolo, come di tenue mandorla.
Stava quindi mangiando a morsi la mezza mela appena tagliata che si trovò a fissare con occhio vago, l’altra metà che si era alfine arenata in una situazione di stallo e fu proprio la conclusione di quel movimento fisico che le suggerì quello del pensiero.
Nella sua condizione eretta, infatti, riusciva ad osservare la mela tagliata a metà dall’alto, distinguendone i bordi appena recisi che affioravano determinati da una linea sottile e nitida. Quasi continua.
Interrotta solo , con morbida soluzione, da due anse a cuneo tese tra loro nell’unione (senza possibilità di epilogo) per riprendere la sua corsa sul filo di un piano diverso da quello della tavola, determinandone da essa la distanza e quindi la prospettiva.
Quella stessa prospettiva che garantiva la sfericità della mela. Ma per essere veramente rigorosi, in questa specifica situazione, assicurava solo la presenza del suo emisfero restante.
All’impatto di questa nuova constatazione così realistica ed inclemente, fu presa e catturata da un senso di colpa improvviso che le fece chiedersi con quale diritto lei, avesse leso quell’intero; e se fosse ancora possibile, a quel punto, rimediare ad un gesto acquisito ed espresso superficialmente, di cui solo ora, decifrava il risvolto negativo.
Nell’intento di un gesto riparatore, si rivolse alla fruttiera pescando in essa rapida e appropriandosi di un’altra mela che con scrupolosa incisione, ridusse a due nuove metà: ne masticò una alacremente per farla sparire e avvicinò la restante alla mezza mela abbandonata sulla tavola, per farla combaciare.
Ingenuamente.
Per quanto si ostinasse a modificarne la postura con gesto attento e calibrato, affinchè questa coincidesse alla primaria, si notavano via via delle sbavature che risultavano costanti soltanto nella loro imperfezione.
Con un’ostinazione crescente ed oramai incontrollabile ripropose l’azione accaparrandosi di una nuova mela nel desiderio caparbio di riportare il gesto sconsiderato ad una eventuale e possibile mediazione.
Nel frattempo appoggiava con l’altra mano la mezza mela appena tagliata, sul piano del tavolo, dove si fermava dopo un breve accenno di oscillazione … o di fremito per la mutilazione appena subita?
Non riuscendo a soffermarsi su quel dubbio per paura di un’insostenibile risposta, tagliò con gesto febbrile, dimezzandola, la mela che stringeva tra le mani e in cui aveva riposto una rinnovata ed ostinata speranza: la ricomposizione dell’intero.
Ingurgitata una parte, appoggiò la superstite, prima su di una eppoi sull’altra mezza mela che se ne stava oramai immobile sulla schiena curva, appoggiata al piano orizzontale della tavola.
Ma la conseguenza non fu che quella di una rinnovata e crescente delusione che non servì ad altro che a ripetere un gesto oramai esasperato, con metodico e crescente accanimento: un gesto visto e rammentato davanti ad una pressa qualsiasi di una qualsiasi fabbrica.
E lì sulla tavola il risultato: numerose mezze mele oramai immobili all’infuori dell’ultima, ancora dimenante sulla schiena ricurva.
Il moto d’animo che scaturì a quell’immagine inquietante fu oltremodo ambiguo nella sua duplicità: che senso aveva tagliare a mezzo un intero? Era cosa giusta chiederselo.
Ma forse ancora più onesto era chiedersi perché fosse necessario riunire due parti oramai divise, a tutti i costi.
Non era forse soltanto attraverso quel gesto naturale, ora recriminato, che aveva potuto scoprire l’esistenza di un universo celato dalla totalità e dalla compattezza?
Quei due ventri biancastri, ricchi ambedue si semi bruni, traboccanti di umori e potenzialità erano infatti l’evento di quell’esperienza.
All’inquietudine subentrò la soddisfazione della nuova ed imprevedibile scoperta che distese la sua mente e la sua bocca corrugate, ad un sorriso.
La pacatezza appena raggiunta dopo una così snervante ansia ebbe però breve vita perché si fece strada in lei una nuova e cocente proposizione.
Lì sul tavolo c’erano molteplici mezze mele che esibivano ora con orgoglio la loro raggiunta ed introiettata identità. Ma dov’erano tutte le rimanti metà alle quali spettava di diritto, il medesimo destino?
Con un sussulto portò lo sguardo al suo, di ventre e per negarsi l’evidenza, voltò le spalle dirigendo i suoi passi in un’altra stanza.
Ma nel percorso intrapreso a cercare un insopprimibile sollievo, si trovò a cambiare rapida il ritmo, accelerando il passo fino alla corsa in cerca di una soluzione.
Raggiunta la bianca tazza del cesso, chinandosi, si cacciò due dita in gola e vomitò.
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